STOLEN MOMENTS: Il Vocalese e le jazz songs

La vocalità è un elemento che quando si parla di jazz si tende spesso a trascurare, ma a torto.

Lo stesso suono degli strumenti nel jazz, quelli a fiato con maggiore evidenza ma anche tutti gli altri nessuno escluso, è invece influenzato e ispirato dalla voce, così come le voci sono spesso utilizzate come puro strumento, senza l’ausilio di un testo come nelle sillabazione nonsense dello “scat” o adoperando le liriche come puro pre-testo per l’improvvisazione o per l’interpretazione della canzone in senso esclusivamente musicale.

Un’altra possibilità, oltre a quella classica della interpretazione coerente del testo letterario/musicale, è quella offerta dal cosiddetto Vocalese, uno stile che nasce applicando un testo di significato compiuto alle note di brani jazz e soprattutto, e spesso nota per nota, di famosi assoli strumentali del jazz, in genere improvvisati nella loro prima versione. Questo stile, applicato al be-bop di cui è stato in pratica un frutto speciale, ha anche la caratteristica di richiedere una particolare velocità nella enunciazione delle parole, fino a diventare una specie di scioglilingua, e ha anche spesso veicolato testi ricchi di humour e di doppi sensi tipici del linguaggio trasgressivo degli Hipsters dell’epoca.

Un altro modo di cantare nel jazz molto vicino al vocalese, ma differente da questo per il fatto di non seguire precisamente gli assoli, è offerto dalla applicazione di un testo a brani originariamente concepiti o pubblicati come dei brani strumentali, in modo da trasformare quei “jazz tunes” in “jazz songs”, con risultati a volte assolutamente eccellenti.

Il primo brano, interamente vocale e quindi “a cappella” è quasi naturalmente il classico bop di Dizzy Gillespie ribattezzato quasi esattamente “Another night in Tunisia” con i Manhattan Transfer -Alan Paul, Cheryl Bentine, Janis Siegel e Tim Hauser- guidati da Jon Hendricks, uno dei fondatori del genere, e accompagnati alle “percussioni vocali” dal fantastico Bobby McFerrin, in una disco intitolato proprio “VOCALESE” che nel 1984 riproponeva con freschezza questo stile inventivo e divertente.

La Yardbird suite di Bob Dorough, del 1956 è quasi un necrologio per Charlie Parker, scomparso l’anno precedente, creato ripercorrendo le linee melodiche e gli assoli del grandissimo Sax Alto di Kansas City con un testo elogiativo e carico di rimpianto per il genio scomparso.

La fortunata versione di Moody’s mood for love di George Benson, con ospite anche la brillante vocalist Patti Austin, è particolarmente importante, perché riprende nel celebrato LP “Give me the Night” del 1980 uno dei più importanti brani del vocalese, basato proprio sull’assolo del famoso sassofonista James Moody sulla preesistente “I’m in a mood for love”, che fu il primo esempio di successo del genere all’inizio degli anni ’50.

Little Niles, uno dei brani emblematici dell’hard bop e tra le composizioni più felici del grande pianista Randy Weston è dotato di un testo e impreziosito dalle armonie vocali del trio formato da Dave Lambert, Jon Hendricks e Annie Ross. Anche nel jazz più contemporaneo c’è chi coltiva questa forma, come fa il magnifico Kurt Elling con la Samurai Cowboy di Marc Johnson, in un brano di vibrante jazz elettrico.

Round midnight è uno dei “jazz originals” più noti e amati da pubblico e musicisti, come è successo ad altri brani di Thelonious Monk, ha acquisito nel tempo una doppia veste sia come brano vocale con un testo aggiunto che come pezzo strumentale, la versione di Andy Bey con le sorelle SalomeGeraldine è particolarmente riuscita e originale, con echi gospel apparentemente estranei eppure molto adatti al clima della canzone.

Work song è un classico del soul jazz dei fratelli Nat e Julian “Cannonball” Adderley, dotato di un testo significativo da Oscar Brown Jr. per una versione che in questa forma è stata ripresa innumerevoli volte, anche da grandi star come Nina Simone.

Ancora soul jazz con Sugar, capolavoro del genere che trova Jon Hendricks in magnifica forma duettare con il sax tenore di Stanley Turrentine, autore del brano originale.

La Twisted (“svitato”) del grandissimo Mark Murphy è quella che Annie Ross, parte del trio L.H.&R., costruì a partire dal brano del sax tenore Wardell Gray, con un testo spiritoso e “hip”.

Black Nile di Wayne Shorter è trasformato con impeto in un veicolo per la voce e per lo “scat” di Gregory Porter, cantante in primissimo piano nei tempi attuali e autentico interprete jazz-soul.

The Wind è un classico del cool jazz legato a Chet Baker, la emergente cantante e chitarrista Susana Raya ne fornisce, con l’ausilio del famoso bassista Steve Swallow, una personale e suggestiva versione con un testo da lei stessa scritto lingua spagnola.

One o clock jump del trio  Lambert Hendricks & Ross con alcuni elementi dell’orchestra di Count Basie, chiude la nostra playlist con un esempio di “vocalese” del massimo livello, e particolarmente significativo anche perché il termine stesso fu coniato e scritto nel 1957 sulle “liner notes” dell’album, “Sing a Song of Basie”, e da allora entrato nel vocabolario del jazz.