«Sono stato dimesso avant’ieri. Grazie a Dio quest’esperienza è ormai alle spalle, ma è indubbiamente un ricordo che lascia tracce e segni molto profondi. Quando questo virus ci invade, poi decide lui come farlo. Non dipende più da noi.»
Un po’ di affanno e qualche dolore muscolare dopo una lunga passeggiata al Poetto, poi i sintomi che diventano sempre più seri: dopo alcune settimane nel reparto malattie infettive del SS. Trinità l’ex presidente della Regione Ugo Cappellacci è finalmente tornato a casa. A Extralive mattina ci ha raccontato la sua esperienza con il virus: «Inizialmente non ho avuto altri sintomi oltre a qualche fastidio muscolare, che però attribuivo alla lunga camminata che avevo fatto la domenica. A tutto pensavo tranne che al Covid. Il mercoledì successivo sono andato a Roma, al rientro ho fatto il tampone che è risultato positivo. Da quel momento in poi è cominciato un percorso a ostacoli. All’inizio sono stato curato in casa con il protocollo standard che prevede cortisone e l’eparina. Ho iniziato ad avere problemi respiratori, mi hanno dato la bombola dell’ossigeno ma l’insufficienza respiratoria ha continuato a peggiorare. Dopo la tac sono stato ricoverato e tenuto per una settimana h24 con la maschera dell’ossigeno.»
IL RICOVERO: «Quello che voglio sottolineare è che siamo circondati da angeli e non è esagerato chiamarli così: ci sono medici, infermieri, sanitari e parasanitari veramente straordinari, in termini di competenza, professionalità, disponibilità e attenzione. Gente che da un anno a questa parte vive ritmi assurdi, sempre sotto pressione. C’è un momento, grossomodo attorno al decimo giorno di malattia, in cui si arriva a un bivio: o c’è una ripresa dei parametri, o c’è un peggioramento repentino. E dal letto dell’ospedale ci si sente dentro a una roulette russa. A casa ho contagiato mia moglie e mio figlio, che però non hanno avuto grossi sintomi, e ho sempre ringraziato il cielo di essere io quello messo peggio: non sapere come sta un proprio familiare, non avere notizie, è davvero terribile.»
LE GIORNATE IN OSPEDALE: «Quello che bisogna fare è mettersi un’armatura di pazienza e lasciare che il tempo faccia la sua parte. L’unico vero rimedio è la terapia d’ossigeno e il tempo. Ho terrore degli aghi e sono donatore con grandissima fatica. Quando mi hanno fatto il primo prelievo arterioso ho detto “me ne torno a casa solo per non fare questo”. Poi mi sono fatto fare tutto, ho accettato il mio quotidiano.»
IL RITORNO A CASA: «Io ho fatto circa tre settimane, una a casa e due in ospedale. In questo periodo ho completato la terapia che è fatta di cortisonici, di antivirale e di eparina, che serve a fluidificare il sangue ed evitare le trombosi che sono possibili sia per l’inattività che a causa del virus. L’unica prescrizione che mi è stata data ora è stata quella di assumere un po’ di ossigeno in caso di necessità. Devo controllare la saturazione e se si abbassa continuare per un po’ a usare la bombola dell’ossigeno. Dopo questa esperienza si diventa obbligatoriamente diversi: cambiano le priorità, cambia il paradigma e ti ritrovi ad affrontare le cose in modo diverso. Ci sono due elementi che ti portano a cambiare: la paura e le migliaia di manifestazioni di affetto e di vicinanza da parte delle persone. Un’esperienza così ti fa rivalutare le cose semplici, le cose vere, e hai bisogno di restituire quello che ti è stato dato. Se c’è una cosa che mi caratterizza oggi è una calma interiore straordinaria. Sfido chiunque a tentare di farmi arrabbiare!»
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